LA POVERTA' EDUCA

A
cinquant’anni dalla morte avvenuta il 26
giugno 1967 l’opera di don Milani non cessa di provocare e far discutere.
Don
Lorenzo Milani, raccontato da parti diverse come l’educatore, il maestro,
l’obiettore di coscienza, dando luogo
spesso a riduzioni e strumentalizzazioni, è stato osteggiato per lunghi anni da larga
parte della chiesa.
Il 20 giugno scorso Papa Francesco, rendendo omaggio alla memoria del prete di
Barbiana ne ha riconosciuto i meriti e il valore missionario .
Durante
la breve visita a Barbiana il Pontefice, ha portato
l’attenzione sul tema del legame tra
povertà come problema sociale di nuovo emergente e deprivazione
culturale. Dalle sue parole emerge centrale il tema del circolo vizioso che lega
a doppio filo la povertà e l’esclusione sociale e un basso livello di scolarizzazione :
« Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e
quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola
che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il
lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole». Papa Francesco- Barbiana
2017
Negli stessi
giorni anche l’Autorità garante dell’infanzia e dell’adolescenza Filomena Albano, presentando al Parlamento la
Relazione Annuale 2016 sulla situazione dei minori in Italia ci parla di un
numero crescente di minori che vive in condizione di povertà assoluta ( la stima attuale è di 1 milione e 131mila
minori ) e non esita ad affermare che :
«In questo
momento il principio d’uguaglianza, che si riteneva acquisito, torna ad essere
attuale, diventa una sfida, la sfida dell'uguaglianza..» «… Povertà economica e povertà
educativa si alimentano reciprocamente in una catena che fatica a spezzarsi. Le
disuguaglianze relative a privazioni delle possibilità educative nei confronti
dei bambini in condizioni di povertà violano il principio di uguaglianza e
pregiudicano la concreta possibilità per bambini e adolescenti di sviluppare le
proprie inclinazioni. Povertà educativa significa, anche, povertà affettiva e
di relazioni, che crea esclusione» Relazione Annuale 2016
Vincere la povertà educativa si pone quindi come una sfida anche
ai giorni nostri e allora accanto a
gridi di allarme, proponiamo in evidenza
la lucida analisi del sociologo
Carlo Barone, che si occupa di disuguaglianze nell’istruzione presso
l’Osservatorio Sociologico dei Cambiamenti Science PO di Parigi,
e riportiamo di seguito l’articolo recentemente pubblicato sulle pagine della rivista on line
Bene Comune.net dal titolo “ La povertà educativa: definizione,
misurazione e un metodo per contrastrarla ”
che ci suggerisce la visione di
una strada percorribile per contrastare le
disuguaglianze in ambito educativo.
1. Cos’è la povertà educativa e come viene misurata?
La nozione di povertà educativa è stata introdotta da alcuni sociologi ed
economisti alla fine degli anni ’90 per sottolineare che la povertà è un
fenomeno multidimensionale che non può essere ridotto alla sua componente
strettamente economica. L’idea è stata successivamente ripresa in un rapporto
di “Save the Children” e infine in un recente bando ministeriale,diventando così familiare per un
pubblico più ampio
Così come per la dimensione economica
della povertà, il riferimento teorico è all’ideale dell’uguaglianza
di condizioni, ossia l’idea che ogni essere umano abbia diritto a godere dei
livelli essenziali di un insieme di beni primari necessari al suo sviluppo
personale e alla sua
inclusione sociale. Nelle società capitalistiche, questa idea ha consentito di
porre un argine alle disuguaglianze economiche, affermando che esse non possono
raggiungere livelli tali da trasformare la deprivazione economica in
marginalità sociale. Con la nozione di povertà educativa, s’intende
sottolineare che anche le disuguaglianze nelle competenze e nelle conoscenze
acquisite durante i processi educativi vanno contenute. Ogni essere umano ha
diritto a livelli di riuscita formativa tali da permettere la sua piena
realizzazione personale e inclusione sociale.
L’idea di povertà educativa è
quindi strettamente legata all’approccio delle capabilities sviluppato
da Sen e Nussbaum: l’uguaglianza sociale richiede di promuovere la libertà
individuale, intesa in senso positivo come opportunità di realizzare i propri
progetti di vita. Questa opportunità richiede non solo risorse economiche, ma
anche le risorse culturali e riflessive necessarie alla realizzazione personale
e alla piena cittadinanza.
Il concetto di povertà educativa ha quindi un significato ampio, anche
se poi la sua misurazione empirica è affidata di norma a indicatori empirici
ben più circoscritti: i livelli di competenza linguistica, matematica,
scientifica o economico-finanziaria, l’abbandono scolastico, le qualifiche
formative acquisite. La dimensione delle competenze è particolarmente rilevante
e potrebbe/dovrebbe essere arricchita con ulteriori indicatori, ad esempio le
competenze civiche, la conoscenza dell’inglese, le abilità informatiche.
2. Come ridurre la povertà educativa? Un
breve elogio del pragmatismo
Il profilo dei soggetti esposti ai maggiori rischi di povertà educativa è
ampiamente noto: maschi, genitori con livelli ridotti di scolarità e in
condizione di marginalità occupazionale o povertà economica, famiglie
straniere, nuclei familiari monoparentali o sottoposti a condizioni di disagio
sociale. Inoltre in Italia i rischi di povertà educativa sono molto maggiori nelle
regioni meridionali
Come contrastare il fenomeno? Una risposta onesta a questa domanda è
che in Italia sappiamo molto poco su cosa funziona davvero. Beninteso, esistono
alcune idea generali condivise. Ad esempio, è ampiamente riconosciuto che,
poiché l’apprendimento è un processo cumulativo dove le prime competenze
acquisite sono i mattoni su cui si possono, o non si possono, costruire le
competenze di ordine superiore, il contrasto alla povertà educativa deve
iniziare dai primi anni di vita. E’ molto condivisa inoltre l’idea che
l’accesso a servizi per l’infanzia di qualità svolga un ruolo essenziale per lo
sviluppo delle competenze di base. Al contempo si riconosce che, poiché i
bambini passano almeno il 50% del proprio tempo al di fuori di questi servizi
(conteggiando anche i fine settimana e le vacanze) e sotto la supervisione
diretta o indiretta di genitori e parenti, potenziare le competenze e le
motivazioni delle famiglie di origine è altrettanto importante. Ad esempio,
promuovere la riuscita educativa di un bambino straniero richiede anche di
investire sulla sicurezza economica, sull’inserimento sociale e sulle capacità
linguistiche dei suoi genitori. Infine, il sostegno precoce e personalizzato
agli allievi in difficoltà nella scuola di base e l’orientamento alle scuole
superiori sono riconosciuti come snodi essenziali nella prevenzione della
povertà educativa.
Queste idee sono però solamente linee strategiche molto generali: il
vero problema è come metterle in azione efficacemente. Chiunque operi nel
lavoro sociale sa benissimo che un’idea può essere ottima in partenza e
rivelarsi poi del tutto fallimentare quando viene messa in pratica, per un
insieme di ostacoli grandi e piccoli che impediscono di raggiungere l’obiettivo
prefissato. E’ il modo in cui mettiamo in pratica l’idea, sin nei più piccoli dettagli,
ciò che fa la differenza. Come dicono gli inglesi, implementation matters.
Vediamo un esempio tra i tanti possibili: nella letteratura
internazionale, uno dei mantra della prevenzione della povertà educativa è il
coinvolgimento dei genitori (parental involvement) e una delle azioni ritenute
più efficaci è la lettura di libri di storie ai bambini sin dalla prima
infanzia. E’ una bella idea, ma purtroppo la letteratura è piena di studi
scientifici che mostrano i fallimenti degli interventi di promozione della
lettura parentale. E questo non dovrebbe affatto sorprenderci. Le cose che
possono andare storte sono molte: possiamo dare libri ai genitori e spiegare
loro l’importanza di leggerli, ma nei nuclei dove si concentrano disagio
economico, sociale e culturale non è difficile immaginare che molti genitori
saranno poco ricettivi, quindi bisogna trovare le modalità comunicative adatte;
inoltre non basta convincere i genitori in astratto, essi devono poi mettere in
atto una routine regolare; la lettura diventa un rituale piacevole e
arricchente solo se spieghiamo ai genitori anche come leggere efficacemente; la
scelta dei libri poi dev’essere tarata molto bene: se il livello di vocabolario
è un po’ troppo complesso, genitori e bambini possono scoraggiarsi o annoiarsi,
mentre se è troppo semplice l’apprendimento è limitato; bisogna adattare
efficacemente l’intervento alle famiglie straniere; e così via.
Davanti a queste difficoltà, l’unico atteggiamento difendibile è il
pragmatismo: imparare dagli errori. Ma per imparare dagli errori, dobbiamo
capire che abbiamo sbagliato, cioè capire che un intervento non ha funzionato.
Invece la valutazione dell’efficacia degli interventi nel lavoro sociale è una
prassi molto rara in Italia. Alle volte la “valutazione” non c’è, altre volte è
intesa come mera rendicontazione (“avete speso tutti i soldi?” Come se spendere
tutto equivalesse a spendere bene); altre volte, è fatta in modo ingenuo. Ad
esempio, come potremmo valutare se un intervento di promozione della lettura parentale
funziona? Anzitutto dobbiamo fissare chiaramente l’obiettivo che vogliamo
raggiungere e come misurarlo (ad esempio vogliamo migliorare le competenze
linguistiche, descritte da una misura di vocabolario ricettivo). Questa è una
banalità che spesso nei fatti viene presa poco sul serio: davanti a un
progetto, si tende a mettere in campo quante più azioni possibili, ma senza
preoccuparsi di verificare puntualmente la loro efficacia: sono buone idee e si
presume che qualche effetto benefico lo abbiano.
Dopodiché misureremo le competenze linguistiche dei bambini prima e
dopo l’intervento. Ma è evidente che, se osserviamo un miglioramento nel tempo
delle competenze, non possiamo concludere che esso derivi dal nostro
intervento: dopotutto, il vocabolario dei bambini cresce in fretta anche solo
per osmosi con l’ambiente circostante; il nostro intervento potrebbe essere
stato del tutto inefficace per uno dei tanti motivi menzionati sopra. Dobbiamo
allora confrontare il miglioramento delle competenze dei bambini coinvolti
nell’intervento con quello di un gruppo di confronto che non vi ha partecipato;
se guardiamo cosa succede solo a chi ha partecipato all’intervento, stiamo
facendo l’assunto eroico che, in assenza di questo intervento, non sarebbe
cambiato nulla.
Infine, affinché i due gruppi siano realmente confrontabili in
tutto e per tutto, l’assegnazione a uno dei due gruppi deve avvenire
necessariamente con una procedura di estrazione casuale (sperimentazioni
randomizzate). Invece, nei rari casi in cui si effettuano valutazioni che
confrontano due gruppi, questi sono costruiti un po’ a casaccio, con criteri ad
hoc che pregiudicano la loro reale confrontabilità.
Fissare obiettivi chiari e misurabili, confrontare due gruppi nel tempo,
assicurarsi che i due gruppi siano realmente confrontabili: è questo l’unico
modo per sapere se l’intervento ha funzionato o meno. I bandi sulla povertà
educativa hanno innovato positivamente su questo versante, richiedendo che i
progetti contenessero valutazioni d’impatto sperimentali o quasi-sperimentali.
Purtroppo questa metodologia è poco praticata in Italia, mentre in altri paesi
come l’Olanda o l’Inghilterra è più sviluppata e quindi più familiare agli
stessi operatori sociali, quindi sarebbe auspicabile pensare ad azioni formative
su questa metodologia.
Le sperimentazioni randomizzate permettono di capire se un intervento ha funzionato o meno.Questo
è molto importante, ma non basta. A questo punto, servono altre due cose. La
prima è capire cosa ha funzionato e cosa no nell’intervento, attraverso analisi
qualitative della sua implementazione; ad esempio, nel nostro caso potremmo
intervistare dei genitori che hanno partecipato all’intervento e capire quali
difficoltà hanno incontrato. Il secondo passaggio essenziale è mettere in rete
le lezioni apprese, farle diventare un patrimonio conoscitivo condiviso. Così
magari nel prossimo intervento sulla lettura parentale non si ripartirà da
zero. Per fare questo, servono archivi (repository) che mettano a disposizione
di tutti e queste analisi di impatto e di implementazione, rendendole
agevolmente fruibili a un pubblico ampio.
Provate a guardare, ad esempio, in questa banca-dati americana. Qui trovate una serie di obiettivi collegati
alla lotta alla povertà educativa: migliorare le competenze matematiche,
ridurre la dispersione scolastica, facilitare l’integrazione degli allievi
stranieri, e così via. Per ogni obiettivo, troverete un gran numero
d’interventi che sono stati messi in atto, leggerete una breve descrizione di
ogni intervento, saprete se ha funzionato o meno, se si è rivelato più efficace
per alcuni sottogruppi di studenti e troverete un ragionamento sui problemi di
implementazione. Dettaglio molto importante: troverete anche le azioni che non
hanno funzionato, per evitare di ripetere gli stessi errori. In altri paesi
europei esistono esperienze simili, ma in Italia un archivio così non c’è
perché le valutazioni d’impatto sono arrivate l’altro ieri. Quindi il migliore
punto di partenza è capire che cosa ha funzionato altrove e chiedersi se e come
possa essere adattato al contesto italiano.
Per concludere, in questo contributo ho illustrato cos’è la povertà
educativa, perché è importante occuparsene e come viene misurata. Non ho
proposto ricette per contrastarla, perché credo che le ricette che funzionano
in Italia non le conosciamo ancora: sinora ci siamo accontentati delle buone
intenzioni e delle pie speranze. Ho proposto allora un metodo per imparare a
conoscere cosa funziona o meno, capire perché funziona o non funziona e
condividere le lezioni apprese.