“La pubblicizzazione dell’intimità”
Tratto da “L’ospite inquietante”
di Umberto Galimberti

Oggi si assiste ad una neutralizzazione della
differenza tra interiorità ed esteriorità; se infatti chiamiamo “intimo” ciò
che si nega all'estraneo per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio
segreto profondo e spesso ignoto a noi stessi, allora il pudore, che difende la
nostra intimità, difende anche la nostra libertà; e la difende in quel nucleo
dove la nostra identità personale decide che tipo di relazione instaurare con
l’altro.
Il pudore, infatti, non è una questione di vesti o
abbigliamento intimo, ma una sorta di vigilanza dove si decide il grado di
apertura e di chiusura verso l’altro.
Dato che siamo esposti agli altri e come ci ricorda
Sartre “dallo sguardo degli altri siamo
irrimediabilmente oggettivati”, il
pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività, in modo da essere
segretamente se stessi in presenza degli altri. Di conseguenza l’intimità si
coniuga con la discrezione, nel senso che, se “essere in intimità con un altro”
significa “essere irrimediabilmente nelle mani dell’altro”, nell’intimità
occorre essere discreti e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non
si dissolva quel mistero che, se interamente svelato, estingue non solo la
fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità, che a questo
punto non è più disponibile neppure per noi.
Ma contro tutto ciò, soffia il
vento del nostro tempo che vuole la pubblicizzazione dell’intimo, perché in una
società consumistica, dove le merci per essere prese in considerazione devono
essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento
dei giovani, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in
mostra, per cui, come le merci, il mondo è diventato una mostra, un’esposizione
pubblica che è impossibile non visitare perché comunque ci siamo dentro.
In questo modo molti giovani scambiano la loro
identità con la pubblicità dell’immagine e così facendo, si producono in quella
metamorfosi dell’individuo che non cerca più se stesso, ma la pubblicità che lo
costruisce.
Chi infatti non irradia una forza di esibizione e di
attrazione più intensa degli altri, non si mette in mostra e non è irraggiato
dalla luce della pubblicità non ha la forza di sollecitarci, di lui neppure ci
accorgiamo, il suo richiamo non lo avvertiamo, non ci lasciamo coinvolgere, non
lo riconosciamo, non lo usiamo, non lo consumiamo, al limite “non c’è”.
Per esserci bisogna dunque apparire; e chi non ha
nulla da mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non un’abilità, non un
messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato mette in mostra la propria
interiorità, dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti,
significati “propri” che resistono all’omologazione, che, nella nostra società
di massa, è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli
individui.