Sudan, guerra sconosciuta

Sudan. Un genocidio periferico che non interessa nessuno

Sul sito www.volerelaluna.it un articolo di Gianni Tognoni sulla situazione in Sudan

L’obiettivo di questa “nota” è molto semplice, e in un certo senso banale o ripetitiva. Nell’affollatissimo scenario di notizie che occupano tutti i media (uno spettro ben strano di “emergenze”): la guerra già in atto contro Gaza e i territori occupati (senza risparmi di armi e massacri) che vorrebbe ulteriormente allargarsi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/08/01/il-medio-oriente-brucia/); lo scontro surreale, ma trasformato in evento politico e culturale, su un “non incontro” di boxe alle olimpiadi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/08/05/genere-e-fake-news-a-margine-di-un-non-incontro-di-pugilato/)…, si vuole richiamare l’attenzione su quanto accade, di rilevante, ma senza alcuna risonanza mediatica o politica, in un angolo di mondo. Nulla di nuovo, dunque. La cronaca che non tocca direttamente interessi (nazionali o internazionali) riconducibili a strategie di discussione talk-show o like e che addirittura pretende di dare importanza a disastri che “succedono” in paesi periferici, non ha diritto di cittadinanza nel mondo di una informazione che mira anzitutto a intrattenere.

Il paese “periferico” è di fatto molto centrale, da tanto tempo, tra le aree ufficialmente in crisi e si chiama Sudan. Ha una popolazione importante, intorno ai 50 milioni di abitanti. Ripercorrerne la storia di guerre e carestie “epocali” (Darfur è un nome evocativo, come un racconto mitico, accompagnato, per lo stesso paese, dal termine, oggi comune, di genocidio), così come di tentativi regolarmente disattesi di un ordine in condizioni minime di stabilità, occuperebbe qui troppo spazio. Basti dire che è un paese molto interessante per il mercato delle armi, che non mancano mai, e che certo non sono prodotte localmente. Come non lo sono quelle dei paesi africani che vengono “mantenuti” in guerre, interne o con mercenari, da un po’ di tempo esportati anche dalle guerre più o meno ufficiali come quella in Ucraina o della Turchia o dell’universo del terrorismo islamico. In fondo, anche qui, come nell’emergenza chiamata “Medio Oriente” (per non chiamare-ricordare con il loro nome le responsabilità e i promotori), valgono le leggi di mercato: l’espansione, più o meno immediata, e più o meno diversificata, fa parte del gioco delle parti, costi quel che costi.

I numeri che seguono, veri protagonisti di questo contributo, sono alcuni di quei costi, che coincidono con esseri umani trasformati in vittime. Per la loro fin troppo evidente gravità, gli autori che li riprendono dalle agenzie internazionali (che assistono impotenti a quanto succede e i cui aiuti umanitari non possono entrare), sottolineano: «Guardate che non sono errori di battitura!». Non hanno bisogno di commento, sono un pro-memoria. La scelta che si propone qui (rimandando ai rapporti di Nigrizia, di Medici Senza Frontiere e delle agenzie delle Nazioni Unite) indica un silenzio che non è determinato da assenza di informazioni. Nelle parole di Filippo Grandi, rappresentante delle Nazioni Unite, premiato anche a Parigi per la sua attività esemplare: «Una delle più grandi crisi umanitarie al mondo, eppure, tragicamente, non se ne parla!».

La guerra ufficiale in Sudan è condotta da due generali che si contendono il potere, dai primi mesi del 2023, avendo il comando delle Sudanese Armed Forces (SAF) e delle Rapid Support Forces (RSF), rispettivamente qualificate come “governative” e come “paramilitari”, quando si devono attribuire i livelli di ferocia che caratterizzano la violenza strutturale della guerra, chiamata, secondo la terminologia usata da sempre in contesti come questo, civile. I morti non si contano, né tra i militari né, tanto meno, tra i civili. Come i massacri. L’unico limite al numero delle vittime è la non disponibilità di bombardamenti aerei massicci. Normale la distruzione fino al 70% delle strutture sanitarie. Le carenze alimentari “severe” interessano, da mesi, 26 milioni di persone, più del 50% di una popolazione totalmente ostaggio della guerra. La “carenza” di cibo coincide di fatto con la sua deprivazione strutturale, per sequestro da parte delle forze armate, inaccessibilità economica, blocco di aiuti umanitari, impossibilità di semine e raccolto. Livelli di fame classificati di livello massimo negli indicatori ufficiali di carestia (IPC, Integrated Food Security Phase Classification) interessano il 20% della popolazione. Sono almeno 10 milioni i senza casa, di cui la metà bambini. La stima di persone affette da malattie acute è intorno agli 8.5 milioni.

Livelli di fame mai visti” fanno prevedere già per settembre 2.5 milioni di morti. L’obiettivo più ottimistico è quello di poter arrivare ad averne solo poco più di un milione. La stratificazione per età per quantificare le percentuali dei bambini non farebbe che moltiplicare il senso di “disastro” (termine usato anche per esprimere la non descrivibilità quali-quantitativa, e il riconoscimento di non poter intervenire). Ultimo arrivato cronologicamente, il 1 agosto, un rapporto dettagliatissimo di Human Rights Watch (HRW) sulla condizione delle donne, soprattutto nelle aree urbane e nella capitale Karthoum: l’estensione e la sistematicità delle pratiche di stupro non deve né può qui essere esplicitata con esempi. Basta ricordare come viene qualificato il “campione” di donne che hanno potuto raccontare: sono 262, “sopravvissute”. Un’ultima nota: il Sudan ha partecipato con quattro atleti alle Olimpiadi con tutta la dignità di uno Stato che rispetta le regole della società internazionale. Il suo inno nazionale è stato addirittura suonato due volte, perché attribuito per sbaglio anche al Sud Sudan, che da anni è uno Stato indipendente.

Soprattutto in un agosto così rumoroso e confuso, i pro-memoria, anche se tradotti in condanne, raccomandazioni, promesse di intervento (persino al livello più alto possibile come quello delle Nazioni Unite), sono molto leggeri, poco udibili. Si dice già ora che un incontro di pacificazione, o almeno un accordo sugli aiuti umanitari, previsto a Ginevra per il 14 agosto, ha poche probabilità di successo. E tanto più quanto più i discorsi “sulla” guerra cercano di essere i soli permessi. L’assenza e i silenzi sul Sudan sono uno dei prodotti – nelle diplomazie, ma ancor più nella realtà dei media e dei social mainstream e nelle chiacchiere infinite delle politiche che pensano a “campi larghi” per includere dei nessuno – della censura, senza se e senza ma, contro gli immaginari concreti della pace.

I numeri sopra riportati, tanto incredibili quanto veri, vogliono restituire almeno visibilità a uno dei “genocidi della normalità”: una verità storica che non ha diritto, in tempi credibili, neppure a una qualificazione giuridica. Basta chiamare il tutto crimine contro l’umanità o, visto il contesto, crimine di guerra? E si condannano i generali che comandano le milizie in campo? E chi sa chi fornisce armi per una guerra tanto lunga? Come per Gaza, o per i migranti, o per i Rohingyas, o … Siamo testimoni di ciò che sembrava una linea rossa invalicabile: i crimini di “inumanità”, cui non si può applicare il diritto perché le vittime sono non-umani, perciò non esistenti come soggetti. Sono assentì, desaparecidos, scarti, usa e getta: il vocabolario aggettivante per descrivere-denunciare si arricchisce e si diversifica. Questo pro-memoria vorrebbe essere un atto di rifiuto, e di affermazione di esistenza inviolabile e nella dignità per tutti gli assenti e condannati al silenzio. Nella “grande” storia, dove si fa la cronaca delle guerre e delle Olimpiadi, con la stessa attenzione, e nella “normalità” di un tempo dove la disuguaglianza è divenuta come le armi: entrambe, e insieme, inviolabili, priorità da perseguire, per difendere-promuovere un futuro non più obbligato a essere umano.