Sul sito www.mosaicodipace.it un articolo di Nicoletta Dentico sulla situazione di Gaza dopo la tregua
Forse dovremmo chiedere alle donne afgane che cosa hanno da dire sulle insopportabili conseguenze del metodo adottato da Donald Trump per fare il grande gioco della politica internazionale, in un mondo che ha perso la bussola del diritto internazionale e della decenza diplomatica.
Forse dovremmo interpellare le donne afgane per capire quanto sa di sale, in un contesto sfiancato da decenni di guerra, il pane di un accordo negoziato e siglato direttamente con una sola delle parti in causa. Questo accadde a Doha nel febbraio del 2020 quando Donald Trump trattò con i Talebani, lasciando intenzionalmente gli alleati della Nato e il governo di Kabul fuori dalla porta. Lo stesso paradigma negoziale rischia di essere disastrosamente riproposto da Trump nei confronti dell’amico-nemico Putin. Fermare per interesse la guerra tra Russia e Ucraina, con la menzogna della pace.
Le donne afgane, loro sì, sanno. Sanno che cosa aspettarsi dall’euforica propaganda del “piano di pace” per Gaza appena somministrata dal presidente americano al suo secondo mandato. Trump esalta la tregua a Gaza e lo scambio degli ostaggi israeliani e palestinesi rivolgendosi con toni direttamente amichevoli a Benjamin Netanyahu, criminale certificato di un genocidio finanziato massicciamente dagli Stati Uniti, e ovviamente non ci sono palestinesi nella stanza.
Come ricorda un acuto interprete delle dinamiche della psiche umana, James Hillman, grande è l’importanza della retorica perché con le parole si può “modificare la realtà; far esistere e far cessare di esistere; plasmare e modificare la struttura e l’essenza del reale”. L’iperbolica narrazione di Sharm El-Sheikh ribadisce l’intrinseca e inevitabile falsità di ogni Storia ufficiale, per dirla con George Orwell, ma il dato peggiore è che sancisce l’abbandono dell’idea che si possa scrivere una pagina di storia onesta sulla Palestina, una pagina rispettosa della realtà, ben prima del 7 ottobre.
E, infatti, dalla rappresentanza iper-patriarcale e variamente totalitaria dello scenografico parterre egiziano nemmeno un accenno è stato fatto alla catastrofe della popolazione civile di Gaza – The Lancet indicava già lo scorso febbraio che il reale numero dei morti era del 40% superiore ai dati ufficiali.
Non una prova di parola sulle vittime sepolte e perdute sotto le macerie; sul popolo dei corpi deformati (nel corpo e nella mente) dalla irrefrenabile violenza dell’esercito israeliano; sulle migliaia di civili stremati dalla fame e dal blocco degli aiuti umanitari, ancora, mentre scriviamo. Una fatale combinazione che va oltre le parole, e che “si tramanderà per generazioni”, ha detto il direttore generale dell’Oms.
Qual è però il problema vero, indigeribile? È che la comunità internazionale, in due anni di devastazione unilaterale, non è riuscita ad articolare una proposta che fosse una. Poco o nulla sono state capaci di apparecchiare le Nazioni Unite, che il problema del conflitto tra Israele e Palestina hanno creato nel 1947, senza mai riuscire a districarlo concretamente. Non si contano le risoluzioni approvate da allora contro l’occupazione israeliana dei territori di Palestina. Eppure, il diritto internazionale si incaglia in un assetto appeso al diritto di veto che paralizza ogni possibilità di affermazione della norma.
Trump ha trovato campo libero e inerzia morale su tutta la linea. Questa tregua squilibrata e faziosa, messa in piedi in tutta fretta con l’intermediazione dei Paesi arabi e con Israele costretto all’angolo, è molto di più di quanto non abbia fatto la presidenza Biden. Il “Consiglio della Pace” è un comitato d’affari dove i ricchi in accordo con Israele dettano l’agenda ai poveri della Striscia di Gaza, ma non esiste alternativa al suprematismo colonialista della Casa Bianca. Non segnerà la fine dell’estenuante conflitto israelo-palestinese, e neppure la fine della seconda Nakba, vista la brutalità senza limiti dei coloni in Cisgiordania. “La Storia non si ripete, ma fa rima con sé stessa” ha scritto Margaret Atwood. Le donne afgane conoscono bene questa rima.