Addio Maria Fida Moro, un ricordo di Sergio D'Elia

Chi era Maria Fida Moro, la ribelle primogenita del grande leader DC 

Su "L'Unità" dell'8 febbraio 2024, Sergio D'Elia, di Nessuno Tocchi Caino, Premio Nazionale "Cultura della Pace-Città di Sansepolcro" nel 1998, ricorda Maria Fida Moro e l'impegno per un altro diritto penale sulla scia dell'insegnamento di Aldo Moro



Una delle ultime volte che ci siamo incontrati era il 9 di maggio di qualche anno fa. Ricorreva il 43° anniversario della morte di Aldo Moro. Lo abbiamo ricordato a Radio Radicale proprio con Maria Fida, la figlia primogenita, quella “ribelle” della famiglia, ma anche la più simbiotica con la figura, il pensiero, l’identità del padre. Era commossa e commovente, a tratti divertente durante la conferenza di presentazione del ciclo di spot – il primo proprio con Aldo Moro “testimonial” – a favore delle iscrizioni a Nessuno tocchi Caino nella campagna intitolata “Compresenza”, ispirata da Ambrogio Crespi e realizzata dal nipote Niccolò.

Il 9 maggio è un giorno particolare nel calendario della storia del nostro Paese, della nostra vita. E anche della mia, della mia prima vita, quella votata all’idea romantica e tremenda, di lotta e di lutto, per la quale “la violenza è levatrice della storia”. Verità indiscussa e indiscutibile, una dottrina fideisticamente accettata e tragicamente incompresa da filosofi e storici, intellettuali e militanti politici, ancora oggi, nel nostro tempo. Per capire un’altra verità, scoprire un altro metodo, rinascere a una nuova vita, a me, è dovuto accadere per sorte di finire in carcere e per fortuna di incontrare Marco Pannella. Che per Maria Fida era un “mito”, il fratello maggiore che aveva provato contro tutto e contro tutti a salvare il suo amato padre da chi era convinto che un nobile fine potesse essere perseguito con qualsiasi mezzo. La “verità”, che può rivelarsi tale solo alla prova del proprio singolarissimo vissuto, è che la violenza non fa nascere nulla di nuovo che duri nella storia, è che il fine può essere dai mezzi felicemente prefigurato o, anche quello più nobile, fatalmente pregiudicato e distrutto. La “verità” è – l’esperienza dice – che la nonviolenza è il metodo gentile, è la forza sottile, è lo spirito vitale che muove e cambia il mondo. La “verità” è – il nostro vissuto ci insegna – che una vita, una idea, una lotta mosse dall’amore e non dall’odio, anche nei confronti del proprio nemico, possono superare le montagne più invalicabili, disarmare il potere più potente, persuadere il nemico più ostile.

Pannella amava i Moro, dal più grande al più piccolo, sì, il più piccolo, Luca, di cui Maria Fida si è preso cura con amore fino al suo ultimo istante di vita, con lo stesso infinito amore e la stessa preoccupazione struggente che il nonno, “prigioniero” delle Brigate Rosse, aveva manifestato fino all’ultimo istante della sua vita. Ricordo una bellissima serata con Luca e con Marco che lo volle incontrare a un suo concerto dove non si parlò di Aldo Moro, ma dove con la musica nell’aria aleggiava il suo spirito.

Era riconoscente Maria Fida nei confronti di Marco, al punto di accettare di capeggiare, per suo conto, ma credo anche in nome del padre, “missioni impossibili”. Come quella che, una volta, quasi vent’anni fa, Maria Fida fece a Cuba col Partito Radicale per manifestare a sostegno delle Damas de Blanco, le madri, le mogli, le figlie dei detenuti politici.

Era la figlia di Aldo Moro, amato capo di Stato in quella terra. La sua sola presenza divenne atto di tutela e garanzia che la folta pattuglia radicale non venisse toccata, nonostante i rocamboleschi e a volte goffi comportamenti dei suoi componenti. La sua testa alta, lo sguardo dritto, la parola appropriata e opportuna, la forza del suo vissuto umano e politico avevano disarmato anche Fidel Castro.

Maria Fida ci ha accompagnato fino all’ultimo nei nostri viaggi della speranza. In uno, eravamo in macchina con lei, con Elisabetta e Rita, alla volta di Milano per incontrare gli ergastolani del carcere di Opera, i condannati alla pena senza speranza. E cantava Maria Fida, ha cantato per quasi tutto il viaggio. Intonava le canzoni che da bambina aveva imparato a memoria. Erano tutte canzoni di lotta dei lavoratori o inni dei partigiani alla resistenza. Quando non cantava, parlava, ricordava suo padre, non il Moro canonico, il Presidente, cristallizzato nelle immagini della “prigione del popolo” e irretito nel sangue di via Caetani, ma un altro uomo. Quello di professore universitario che nei suoi scritti giovanili ammoniva che «La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e della speranza». Era quel giovanissimo docente di Bari che, nel 1943, iniziò la sua prima lezione con un «la persona prima di tutto!»; intimamente convinto che «la pena dell’ergastolo che priva così com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana, non meno di quanto lo sia la pena di morte […] Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto […] Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile». Era l’Aldo Moro che, prima degli esami, affittava un pulmino e portava i suoi studenti in gita in carcere per farli riflettere sul senso della pena. Un paradosso tragico e allo stesso tempo – rifletteva Maria Fida – la parabola felice di una pagina indimenticabile della storia italiana, avevano preso corpo nello stesso uomo, Aldo Moro, suo padre. Avevano preso forma nell’essenza più intima della sua umanità, nella sua “ossessiva” attenzione al carcere – il “ministro della galera” lo chiamava uno sprezzante Ugo La Malfa, che sul tema aveva idee e sentimenti opposti ai suoi –, nella sua ricerca “non di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale”.

Pur nella tragedia, ricordava Maria Fida, suo padre aveva realizzato un miracolo. I suoi principi di giustizia e libertà, le sue opere di misericordia corporale (prima fra tutte: visitare i carcerati), la sua professione di fede e di speranza, erano proprio quelli che, con effetto postumo, avrebbero liberato dal carcere dello Stato chi lo aveva sequestrato nel “carcere del popolo”, avrebbero salvato dalla pena di morte e dalla pena fino alla morte chi lo aveva condannato a morte e a una pena fino alla morte.

Alla fine di quella trasmissione a Radio Radicale, Maria Fida Moro decise di prendere la tessera della nostra associazione. “Lo faccio per papà”, disse. “Mi iscrivo a Nessuno tocchi Caino. Mi iscrivo, tra parentesi, ad Aldo Moro”. È la «compresenza dei morti e dei vivi», quel miracolo della vita di cui parlava Aldo Capitini, quel tema ricorrente del pensiero di Marco Pannella, nel suo costante fare di una mancanza una presenza. Come Luca, ne siamo certi, anche noi cercheremo di dare continuità alla tua vita, Maria Fida, all’amore e alla fede nella salvezza e nella speranza e nella dignità di ogni essere umano che erano anche di tuo padre, Aldo Moro. Buon viaggio Maria Fida, ovunque tu vada.